Il ‘mistero’ della santa testa di Turi. A quale delle icone leccese si ispirò Palmisano?

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articolo ripreso da portalecce

Entrando nella chiesa della Sacra grotta a Turi lo si nota quasi subito. E certo può suscitare un grande senso di meraviglia o apprensione. Stiamo parlando del capo di Sant’Oronzo venerato nella cittadina barese.

Si tratta di una scultura lignea raffigurante la testa del martire, racchiusa in una teca poliedrica, posta a sua volta in un artistico stipo. Ma qual è la storia di questa singolare effigie? In primo luogo, è doveroso riconoscere come il caratteristico culto del capo di Sant’Oronzo (icona del martirio sofferto per la fede in Cristo) sia una peculiare devozione leccese.

Infatti, eccetto Turi e Botrugno, essa risulta pressoché ignota a tutti gli altri centri oronziani. Probabilmente, un culto così specifico quanto singolare e che, tra l’altro, si configurava come una sorta di approfondimento della consueta venerazione verso il santo patrono, si sviluppò a Lecce per diverse ragioni. È possibile ipotizzarne la genesi nella seconda metà del XVIII sec., magari dopo il terribile terremoto del 1743 ed il rinnovato fervore che avvolse il santuario extraurbano e la strada che ad esso conduceva, sacralizzata attraverso l’edificazione di una teoria di piccole cappelle. Tuttavia, risulta chiaro come esso raggiunse il culmine nel corso dell’Ottocento, soprattutto durante l’episcopato di mons. Nicola Caputo, insediatosi sulla cattedra leccese nel 1819 e rimasto alla guida della chiesa locale per oltre un quarantennio. Al diffondersi della pietà religiosa verso il capo del martire contribuirono, senza dubbio, l’ardente ed inappagato desiderio di possedere almeno una reliquia del santo ed il clima di devota riscoperta del primitivo cristianesimo che caratterizzò in generale i tempi di Pio IX.

Ma cosa ha a che fare tutto ciò con la testa oronziana venerata a Turi? Questo manufatto in legno di noce – una testimonianza di arte sacra popolare di assoluto valore – venne realizzato, come si legge nell’epigrafe presente all’interno della teca, dal contadino artista Giuseppe Palmisano (1846-1923) per “fervorosa devozione ed eterna riconoscenza”.

Stando agli scritti di mons. Vito Ingellis, il Palmisano, padre di undici figli nonché membro e poi priore della confraternita di Sant’Oronzo, si sarebbe recato a Lecce nel 1901. Qui, visitando il santuario fuori le mura, ebbe modo di ammirare la testa del patrono che, all’epoca, ivi si custodiva e, una volta rientrato a Turi, avrebbe profuso ogni energia al fine di riprodurla. I lavori si protrassero per circa un biennio e nel 1903 l’opera, ormai conclusa, venne benedetta e portata in processione nella ricorrenza del 18 ottobre. Durante quel corteo, una donna avrebbe ricevuto, per intercessione del santo, una straordinaria grazia. La scultura venne dunque custodita presso la chiesa di San Giovanni Battista (sede del pio sodalizio oronziano) e poi trasferita, in tempi più recenti, alla Sacra grotta.

Secondo mons. Ingellis quindi il santo capo di Turi sarebbe la copia di un’omologa opera salentina. Eppure, delle tre teste oronziane oggi conservate a Lecce (ne parleremo in un prossimo articolo), fatto salvo qualche elemento, come il particolare degli occhi rivolti verso l’alto, nessuna sembra rimandare, in maniera cristallina, al manufatto turese che si contraddistingue per una certa originalità. Resta allora il mistero su che cosa vide effettivamente il Palmisano agli albori del XX sec. nel nostro santuario. Eppure, una pista per risolvere l’enigma ci sarebbe.

L’effigie di Turi risulta infatti piuttosto simile ad una xilografia leccese ottocentesca raffigurante la decapitazione del patrono e, per di più riprodotta, nel libro Il martirio di Sant’Oronzo e degli altri primi cristiani salentini di Salvatore Morelli. In quell’immagine, la testa del protovescovo appulo viene raffigurata coi capelli lunghi, divisi da una scriminatura centrale, proprio come il Palmisano scolpì il suo Sant’Oronzo. Ma un dettaglio decisivo sembra essere la daga, posta sotto il collo del martire, puntualmente riprodotta nell’opera turese.

Si ringrazia il dott. Egidio Buccino per la gentilissima collaborazione.