Sant’Oronzo ’19. Intronizzate le statue dei Patroni della città: venerdì al via l’Undena

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articolo ripreso da portalecce

Con il consueto rito dell’intronizzazione dei simulacri dei santi protettori, presieduto in duomo da mons. Michele Seccia, si è inaugurato il programma dei festeggiamenti religiosi previsti per la festa patronale.

Le amate immagini di Oronzo e dei suoi compagni resteranno esposte sul monumentale altare del transetto destro della cattedrale sino al prossimo 27 agosto. È noto infatti che le statue dei patroni sono visibili soltanto nelle giornate dell’undena e della memoria liturgica perché, nel corso dell’anno, vengono invece custodite nel tesoro della cattedrale.

Dal punto di vista artistico, le sculture – bisognose, a nostro avviso, di un intervento di restauro – costituiscono un trittico di capolavori e sono da considerare un autentico tesoro del nostro duomo. I busti dei Santi Giusto e Fortunato, in legno ricoperto d’argento e d’oro, sono opera di Gaetano Patalano, artista partenopeo attivo nella seconda metà del XVII sec. ed autore di soggetti sacri sparsi oggi in diverse città del Mezzogiorno. Da alcuni documenti conservati nell’archivio diocesano è possibile datare i due busti al 1694. Vennero quindi realizzati durante l’episcopato di Michele Pignatelli. Come ricorda lo studioso Salvatore Luperto, le due statue colpiscono per la loro gestualità determinata, l’armonia del modellato, la cura degli intagli e l’eleganza della decorazione. San Giusto è ritratto in abito da tempi apostolici e in una tipica posa oratoria, impugna il crocifisso e leva l’indice della destra verso l’alto. San Fortunato appare invece con i tipici paludamenti da vescovo tridentino: reca con sé il pastorale e l’evangelario ed eleva la mano, guantata con una chiroteca, a benedire. Il suo volto, racchiuso dalla cuspide della mitria, appare raffinato ed assorto. Entrambe le statue sono poste su delle basi barocche elaborate in sinuose volute. Il simulacro argenteo di Oronzo è più recente. Risale al 1866 e si tratta di un ex voto per lo scampato pericolo dell’epidemia di colera che funestò il sud Italia negli anni 1836-38. Venne realizzato dagli artisti napoletani Francesco Citarella e Vincenzo Caruso su progetto di Antonio Maccagnani e risulta gemello dell’effigie presente nella chiesa di Sant’Irene. Il martire, ammantato dal prezioso piviale, viene raffigurato in atteggiamento estatico mentre offre al cielo le sue fatiche apostoliche, simboleggiate dal pastorale e dallo stemma civico della città di Lecce, sorretti da un putto.

Sul piano spirituale, le tre immagini hanno un valore altissimo. In primo luogo, con la loro lucente bellezza, elevano le anime a Dio confermando come lo splendore e il decoro dei riti che si svolgono nelle chiese debbano essere lo specchio terreno dell’eterna liturgia che si celebra in cielo. Ma c’è di più. Queste sculture rappresentano, in maniera concreta, i profondi vincoli di santa familiarità che, attraverso il battesimo, ci uniscono ai tre grandi martiri, nostri antenati nella fede cristiana. Se infatti abbiamo ricevuto l’annuncio evangelico e la grazia di conoscere l’opera redentrice del Salvatore ciò si deve proprio all’eroico sacrificio di Sant’Oronzo e dei suoi compagni che, non a caso, sono posti al vertice dell’albero genealogico spirituale della nostra comunità. Inoltre, se già conserviamo con amore le semplici foto dei nonni o, in generale, dei familiari che ci hanno preceduto su questa terra come ricordi preziosi, tanto più è doveroso custodire e venerare le sacre immagini dei remotissimi padri che ci hanno consegnato la fiaccola della fede. È davvero commovente pensare a quante generazioni di leccesi si sono raccolte in preghiera davanti a quelle statue, a quanti ceri sono stati accesi, quanti fiori offerti, quante angosce confidate, quante grazie implorate e certo ricevute attraverso la semplice orazione compiuta dinanzi ai simulacri dei nostri santi.